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Marida - Novembre 2013

Da dove comincio? e cosa dire… ricordo quello che mi ha detto lorenza la prima volta che è andata al villaggio: si respira amore…

Non parto dai bimbi, forse mi ci voglio avvicinare lentamente. Mi viene in mente kennet, detto anche kennedy, il falegname, il volto neronero, lo sguardo dolce, comprensivo, paziente che ha fatto i lavori in legno del villaggio nel suo laboratorio, un piano di lavoro, sotto un albero dove taglia, pialla, inchioda… Gli sguardi di alcune hause-mother, gli occhi ridenti della cuoca. Il suono della campanella a mano che indica i pasti, lo sciamare dei bimbi di corsa, urlanti.

Parlare dei bimbi del villaggio è apparentemente facile: i piccoli che si aggrappano alle gambe alle braccia al collo con sorrisi che sequestrano il pensiero in attimi senza tempo.

Cosa hanno da sorridere, viene da domandarsi. Quando corrono per andare alla mensa, oppure nei momenti di gioco, quando si rincorrono con il pallone, appaiono dei normali bambini. “Sopportano bene gli effetti collaterali dei farmaci” mi dice Nicola, il medico, volontario. Non ci avevo pensato che quelle cure sono pesanti per i piccoli organismi. E mi rendo conto di quanto è importante che quei piccoli esseri già così provati anche dalle cure mediche, non dover sopportare quel di più di dolore e di fatica di una otite, una congiuntivite, del mal di denti.

Domando alla tirocinante counselor che è stata per molto tempo una hausemother, se i bimbi, sopratutto i piccoli, di notte si svegliano e piangono, per esempio per un brutto sogno. Mi risponde che capita di rado. Poi leggo un tema di una bambina sulla sua migliore amica, scrive che quando di notte la sua amica si è sentita male, lei l’ha aiutata e che lo stesso è poi successo quando a sua volte ha avuto bisogno. Osservo che anche tra i piccoli, se nel gioco qualcuno fa male a qualcun’altro c’è spesso un terzo che arriva e consola. Oppure che se uno ha difficoltà l’altro lo fa aiutare, come un piccolo che non ha ricevuto la caramella viene accompagnato da un altro che dice: lui non ce l’ha.

I bimbi sono curati stanno bene ma succede anche che muoiano. Lo scorso anno, mi viene raccontato che sono morti tre bambini, due piccoli, il terzo di circa 17 anni; i primi due stavano male il terzo si è ammalato ed è morto in una settimana. Quando è stata data la notizia hanno pianto molto. Bambini che sanno della morte lo sanno non come concetto, narrazione, spiegazione ma come esperienza. Un operatore racconta di quando un bambino litigando con un altro e gli ha detto: . .  e non venire al mio funerale, non ti voglio. Oppure di un altro: non voglio andare lassù dalla mamma . . . è lei che mi ha passato questa malattia.

Morte di uno o due genitori,  in genere della madre, allontanamento dalla propria abitazione, temporanea accudimento di altre figure parentali per le quali la sieropositività è un peso (i dispensari delle medicine possono essere lontani, le cure impegnative da sostenere) il bambino diventa un peso e quindi l’allontanamento. Come Peter che ha due fratelli ma quando muore la madre e si scopre che lui è sieropositivo viene portato all’aina, 7 anni, separato di tutto un “prima”.

Esperienze della morte della separazione della perdita dell’assenza, sembra impossibile poter integrare tutto questo così precocemente e radicalmente.

E mi domando: quali sono le speranze, i desideri, i sogni, come è immaginato il futuro. E la rabbia, il senso di ingiustizia (il: perchè a me ) che noi conosciamo così bene, l’invidia (perchè lui sì) il rancore dove sono ?

Marida