Questa è la mia Africa. Nell’agosto del 2024, passeggiando con un’amica appena tornata dal Kenya, precisamente da Nchiru, dal villaggio Aina che ospita bambini in gran parte sieropositivi, constatai la sua esperienza toccante e intensa, percependo una bellezza che mi ha profondamente affascinato. Le dissi: “Il prossimo anno, se andrò in pensione, verrò anch’io”.

Passarono i mesi e tra febbraio e marzo avevo risentito la mia amica che mi disse, “allora ti sei liberata ? Sei andata in pensione?”. Risposi di sì. “Allora in Africa ci puoi venire?”. Io incoscientemente dissi di nuovo sì senza pensare a nulla. Nei mesi che seguirono mi informai su tutti i vaccini da fare e sul paese dove sarei andata, pensando a cosa avrei lasciato qui in Italia, tutte le preoccupazioni quotidiane che mi schiacciavano e mi facevano sopravvivere con rassegnazione, perché vedevo solo il futuro in negativo, preoccupazioni sensate e ragionevoli ma la mia posizione era senza nessuna speranza. Mano a mano che si avvicinava la partenza era come se tutto andasse nella direzione giusta, come se la scelta di partire fosse stata decisa da qualcun altro secondo un disegno stabilito.

Il giorno in cui arrivammo al villaggio venimmo stati accolti dagli altri volontari che si trovavano già lì, e nei loro sguardi si vedeva una certa positività per quello che stavano vivendo e tanto entusiasmo.

L’incontro con i bambini è stato molto bello, soprattutto vedere che si ricordavano il nome di Daniela, la mia amica che era stata lì l’anno precedente. Nei giorni seguenti ci siamo resi disponibili per delle cose da fare nel villaggio e rimasi molto colpita dalla figura della fondatrice e presidente dell’associazione, una donna in gamba che ha che dà tutta se stessa per il futuro di questi bambini. L’impatto con i bambini mi ha provocato molto: mi sentivo inadeguata, ma i loro sguardi e i loro volti mi hanno trafitto e allo stesso tempo allargato il cuore. Nei loro occhi c’è la ferita di un vissuto drammatico, ma anche la luce di una speranza. Quando sono andata con loro a fare una passeggiata fuori dal villaggio ci tenevamo per mano: le nostre mani erano sudaticce, le loro magari sporche di terra rossa, ma ogni volta che per qualche motivo si staccavano, subito dopo si riacchiappavano. Era un bisogno avere qualcuno accanto. Lo stesso accadeva quando eravamo con loro mentre si facevano la doccia e li aiutavamo a vestirsi: anche i bambini più autonomi desideravano essere aiutati, come se con noi potessero tornare a essere semplicemente bambini.

Il giorno in cui siamo andati a fare la visit home, accompagnare i bambini per le vacanze nelle loro case mi ha straziato il cuore. Alcuni di loro piangevano perché non volevano essere lasciati nelle loro famiglie d’origine, poiché vivevano in case simili a tuguri. In particolare un bambino particolarmente vivace, sul pulmino era irrequieto. Una volta arrivati a casa sua, una capanna isolata in mezzo alla foresta, notammo che si era dissociato facendo uscire il suo lato più selvaggio. Noi non capivamo niente per via della lingua, di cosa dicessero il padre, lo zio ed un vicino all’assistente sociale. Passa del tempo e torniamo al nostro pulmino senza il bambino ma l’assistente sociale ci dice che saremmo tornati a riprenderlo. In quel momento il cuore ci si è sollevato. Al nostro ritorno, una volta ripreso il bimbo, il suo viso tornò di nuovo a splendere con un bel sorriso, calmandosi. L’Africa è stata per me un percorso simile ad una conversione, mi ha allargato il cuore e quei bambini mi hanno aiutata a cambiare lo sguardo sulla vita. Ho capito che sia io che quei bambini meravigliosi, abbiamo le stesse esigenze, lo stesso cuore che và oltre i bisogni primari e che passa attraverso di essi. I bambini hanno tutto il diritto di avere una vita dignitosa e di essere felici.